
Diciamocelo, almeno inter nos: Beppe Grillo non è quello che una volta (ma anche adesso) veniva definito totus politicus. Ma proprio perché resta, comunque, un “attore-autore” e di grande successo popolare (e televisivo) non può non sapere le stesse regole proprio della Polis, che non è una città qualsiasi e, neppure, la Città celeste. È, volente o nolente, la politica tout court.
Una premessa che non dovrebbe sembrare così oziosa purché la riflessione, a cominciare dal capo supremo pentastellato, parta innanzitutto dalla caratteristica di fondo del Movimento 5 Stelle: il giustizialismo. Il (suo) movimento ha innanzitutto ereditato la “cultura delle manette” del Pds di Achille Occhetto, non solo, ma anche le istanze dell’ex Pm Antonio Di Pietro mescolando così il postcomunismo e il dipietrismo in un contesto come l’attuale che per certi aspetti appare di più il “post” di tali istanze giustizialiste piuttosto che il loro superamento definitivo. I pentastellati non potevano non essere anche e soprattutto espressione di un populismo all’italiana, un misto cioè di quelle pressioni in una con il giacobinismo che durante gli anni - e con non poca stampa a favore - finiscono col ridurre la politica ai tribunali e ai processi, se non addirittura ai Pubblici ministeri.
Come è stato detto e scritto, il giacobinismo non è tanto o soltanto una derivazione storica a tutti nota, ma applicato alle finalità, al ruolo e all’arte del governo ottiene il risultato di un drastico ridimensionamento della capacità politica coincidente con la sola e nuda onestà, elemento indubbiamente necessario, obbligatorio ma non sufficiente per governare la cosa pubblica. Tanto più se viene strumentalizzato per aizzare le folle anche sulla scorta di una indimenticata proposizione-parabola dello stesso capo pentastellato in perenne campagna elettorale secondo cui una casalinga di Voghera avrebbe potuto fare il ministro del Tesoro perché “non ruba e bada alla famiglia”.
E i risultati di questa propaganda? Sono sotto gli occhi di tutti: l’illusione trasmessa secondo cui proprio la gente priva della necessaria esperienza e senza la non meno obbligatoria capacità politica avrebbe potuto governare, si porta con sé una finalità ad altissimo rischio: il blocco del Paese. L’esempio più evidente e clamoroso resta il blocco della Tav della quale s’è parlato come di un buco inutile dimenticando, o forse no, che un Paese come il nostro non può rinunciare alla crescita, allo sviluppo delle proprie infrastrutture negate con la battuta che agli italiani non interessa andare a Lione. Una battuta che, tra l’altro non fa ridere nessuno, col suo sottofondo permeato di un’ideologia senz’arte né parte, come si diceva una volta.
Un discorso analogamente critico va fatto per l’ormai leggendario reddito di cittadinanza non dissimile dall’ideologismo di cui sopra non foss’altro perché il suo principio assistenzialistico non può servire a creare nuovi posti di lavoro ma, come è stato fatto rilevare autorevolmente “finisce col mantenere in una condizione di subalternità proprio chi è in difficoltà drenando risorse preziose ai tagli di tasse e agli investimenti che creerebbero nuovi occupati dando dignità a chi soffre”.
E che dire della chiusura domenicale dei negozi se non che si inquadra in una sorta di disegno pauperista che non può non riportarci alla mente le misure miranti a quella cupa austerità promossa dai comunisti negli anni Settanta. Chissà se Grillo se li ricorda. Noi sì.
Aggiornato il 05 marzo 2019 alle ore 12:29