Perché la tenuta del Pd è una fake news

La vera stranezza delle recenti elezioni regionali abruzzesi e sarde è l’incomprensibile euforia dei dirigenti del Partito Democratico. Si comportano come se avessero vinto, eppure hanno perso malamente. In entrambe le regioni prima comandavano loro mentre oggi sono stati spediti dagli elettori all’opposizione. Può darsi che sia la medesima allegria di naufragi di ungarettiana memoria. “E subito riprende/il viaggio/come/dopo il naufragio/un superstite/lupo di mare”. Più verosimilmente si tratta della sindrome del sopravvissuto. In questi mesi i “dem” hanno temuto di estinguersi. Il fatto che, sebbene camuffati all’interno di un ampio rassemblement, abbiano mantenuto un consenso, li ha resi ai loro stessi occhi una sorta di miracolati senza il disturbo di una sosta a Lourdes. Tuttavia, si tratta di veduta di superficie. Come si comincia ad andare in profondità si scopre una realtà meno rassicurante per le sorti della sinistra nel suo complesso. In Abruzzo il Partito Democratico è passato dalle 171.520 preferenze alle regionali del 2014 alle 66.769 dello scorso 10 febbraio. Un crollo verticale solo in parte attutito dalla presenza due domeniche orsono della lista civica amica “per Legnini presidente” che ha raccolto 33.277 voti. Si dirà, ma è l’Abruzzo, un caso locale. Giusto, ma ieri l’altro in Sardegna non è andata diversamente. Alle regionali sarde del 2014 il Pd aveva totalizzato 150.492 voti; la scorsa domenica ne ha presi 94.818. Guardiamo le percentuali. Nel 2014 il Pd rappresentava il 22,06 per cento dei votanti; nel 2019 si ferma al 13,45 per cento.

Ora, rispetto al consenso raccolto dalla coalizione, l’apporto assicurato dal Partito Democratico è decisamente ridimensionato. Nel 2014 il candidato vincente del centrosinistra Francesco Pigliaru raggiunse il 42,45 per cento; ieri l’altro Massimo Zedda si è fermato al 32,93 per cento. Ma i “dem” preferiscono l’ottimismo del bicchiere mezzo pieno alla sobria interpretazione del reale. Essi dicono: è un primo passo per una ripartenza. Possibile, ma improbabile. Perché? Non bastano le sommatorie di sigle per dare corpo a un progetto politico credibile. Finora abbiamo assistito all’allestimento di contenitori per allocare, all’interno del quadro istituzionale, l’opposizione di sinistra al doppio fronte avversario centrodestra/ Cinque Stelle. Quindi, la decisione di unirsi è stata motivata da un contro piuttosto che da un pro. Anche perché le traiettorie delle diverse componenti del centrosinistra non scorrono col medesimo grado d’inclinazione. Lo provano l’Abruzzo e la Sardegna. Nel primo caso la rete di sostegno delle piccole liste locali assemblate nello schema del centrosinistra ha visto uno spostamento del baricentro della coalizione verso le componenti liberali, cattoliche e moderate.

Al contrario in Sardegna, il candidato Massimo Zedda, con una storia personale di sinistra radicale consolidata dall’esperienza in Sinistra Ecologia e Libertà, ha coagulato una costellazione di forze minori d’ispirazione vetero-socialista quando non dichiaratamente comunista. Ora, la domanda è: a quale ipotesi unitaria penserebbe il Pd che non sia l’ammucchiata di prodiana memoria? È concepibile la strutturazione di un campo largo che includa i lib-lab (liberal laburisti alla Tony Blair) di Matteo Renzi, i turbo-capitalisti di Carlo Calenda, la camaleontica “madamina” Emma Bonino e i comunisti di un sedicente “Progetto comunista per la Sardegna”? Sembrano rinverditi i tempi dei “marxisti per Tabacci”. Se il Pd volesse tornare competitivo dovrebbe avere più criterio nello scegliersi i compagni di viaggio, altrimenti l’accusa di cialtroneria è appena dietro l’angolo. Sarebbe come se a destra pur di fare risultato si mettesse insieme una coalizione che includesse lo scudo crociato dell’Udc e la tartaruga di CasaPound. Sarebbe ridicolo, ancor prima che drammatico. La prossima domenica il popolo “dem” sceglie alle primarie la nuova guida dopo anni di acefalia del partito. È di sicuro un momento di svolta che gioverà al tono, alquanto depresso, di un mondo che avverte la sensazione della perdita di contatto dalla quotidianità delle persone comuni come effetto inesorabile di uno scivolamento nell’autoreferenzialità al quale non sa porre freno. Prima di tornare al gioco delle caselle del potere da occupare, il Pd dovrebbe preoccuparsi di recuperare un orizzonte di senso che sembra smarrito. Non se ne abbiano a male i suoi dirigenti ma quando qualcuno sostiene che il Partito Democratico non rappresenta più i valori e le speranze della sinistra non ha torto. La rappresentazione odierna della più grande forza del campo progressista, nell’immaginario collettivo, è quella di un guardiano postosi al servizio degli equilibri di potere ridefiniti dall’avvento della globalizzazione economica. I “dem” hanno smesso da parecchio di occuparsi degli ultimi per rendersi presentabili e credibili agli occhi dei potenti. Si sono accodati senza battere ciglio alla rilettura del tempo storico presente quale nuova fase di civiltà dopo il superamento delle ideologie Otto-Novecentesche, sperando in qualche modo che la confusione di idee che ne sarebbe seguita avrebbe occultato il peso della deviazione dai propri valori fondanti. Oggi, però, il gioco è totalmente messo a nudo.

Ai “dem” non è più dato di barare con la propria constituency, essi devono marcare un perimetro ideale visibile dicendo agli italiani cosa oggi sono, se sono rimasti carne o sono diventati pesce. In mancanza di tale chiarimento sulla natura e sui presupposti di partito di massa dei lavoratori con una sensibilità per i ceti medi produttivi avanzati, nessuna cosmesi restituirà il vero volto del Partito Democratico al suo mondo. E la caduta non verrà arrestata, nonostante il patetico aggrapparsi agli zero-virgola che sembra essere diventata la principale occupazione di una classe dirigente di partito a cui il popolo piddino non risponde più. Neanche al telefono.

Aggiornato il 28 febbraio 2019 alle ore 10:58