martedì 26 febbraio 2019
Sembra facile, come diceva quel tale, mandare tutti a quel paese. E ancora più facile promettere mari e monti. Ma poi?
Poi arriva la Sardegna chiamata alle urne che, nonostante l’impressionante ritardo degli scrutini, ha ripagato con la stessa medaglia gli incauti. Anzi, gli arroganti. C’è stato un dispiego di arroganza elettoralistica nella (non)politica dei pentastellati ai quali, di tanto in tanto, si è affiancato lo stesso Matteo Salvini, sia pure con la capacità di movimento che lo caratterizza insieme a non poche doti “politiche” che, tra l’altro, hanno consentito al centrodestra di vincere ma con una Forza Italia gravata da non pochi rischi, e non solo di visibilità.
Come si dice, il Movimento di Beppe Grillo e di Casaleggio-Di Maio è un partito liquido, esposto alle maree e contromaree elettorali, ma, dopo la Sardegna, alla sua liquidità sembra avvicinarsi un rischio di non poco conto: l’evaporazione. Un po’ come il latte versato per strada dai pastori sardi la cui protesta, a quanto pare, non sembra affatto evaporata. E poi c’è il Governo.
Sul futuro dell’Esecutivo il vicepremier Di Maio ha subito tranquillizzato a destra e a manca, con un occhio ai suoi interna corporis inquieti e spaventati, e con una comprensibile fiducia nell’alleanza salviniana in nome dei pacta sunt servanda e, dunque, con speranze non malriposte per la durata di un Conte, a sua volta superimpegnato televisivamente in dichiarazioni rassicuranti al cento per cento. Che altro dovrebbe fare o dire un Presidente del Consiglio?
Il fatto è che il vero sconfitto in Sardegna è proprio il suo governo, nel senso e nella misura in cui opera l’economia alla quale non si può non far risalire il severo giudizio che ha messo prioritariamente in crisi un Esecutivo del quale si ricorderanno proclami e incessanti parole di ministri molto più esperti in richieste quotidiane di fiducia che in progetti e risultati concreti, con le inevitabili accuse di incapacità e di incompetenza che hanno trovato un riscontro proprio nei risultati elettorali.
Non sono bastati i frequenti viaggi in trasferta, le dichiarazioni, le presenze, le promesse su cui lo stesso Silvio Berlusconi ha voluto porre le sue critiche rivolte anche e soprattutto a un Governo e ai suoi tanti no: agli investimenti (vedi Tav, ma non solo), alle opere pubbliche, agli sviluppi industriali, agli stessi consumi frenati più per incapacità che per disegni preordinati o sottotraccia. Semmai, un disegno, anzi un’offerta sempre presente e non sottotraccia, è quella di un governo in cui populismo e giustizialismo vanno a braccetto infischiandosene delle garanzie erga omnes, privilegiando quei toni arroganti nei quali si è distinto un Di Maio tanto esperto nella leggendaria politica dei social, quanto latitante nella politica del fare.
E il non fare è stato messo in castigo. Almeno in Sardegna.
di Paolo Pillitteri