Lega e M5S in Sardegna, non è l’ultimo tango

Le regionali sarde consolidano le tendenze emerse dal marzo dello scorso anno: il centrodestra unito vince (47,81%), il Movimento Cinque Stelle crolla (11,18%), il centrosinistra non recupera (32,93%). È evidente, però, che il voto in Sardegna non sia meccanicamente applicabile allo scenario politico nazionale. Vi sono alcuni fattori determinanti che non consentono di connettere il consenso espresso ad un’area politica alle elezioni regionali a quello che verrebbe dato nel caso gli italiani fossero chiamati a votare per il rinnovo anticipato del Parlamento. Ricordiamo cosa accadde in Sicilia. Alle regionali del 2017 il centrodestra riportò una schiacciante vittoria sul candidato pentastellato. Dopo neppure cinque mesi, i siciliani chiamati ai seggi delle politiche nazionali hanno consegnato il “cappotto” ai grillini.

Le caratteristiche di fluidità del voto si sono di gran lunga accentuate negli anni della Seconda Repubblica, contraddistinti dalla guerra alle ideologie e alle identità politiche e culturali definite che erano state il sale della Prima Repubblica. Ragion per cui è esercizio di prudenza tenere separate le differenti fasi di verifica del consenso. Ciononostante non si può tacere la secca perdita subìta dalla compagine grillina, che è scesa nell’isola dai 369.196 voti delle politiche dello scorso anno agli odierni 68.461, raccolti al momento in cui scriviamo in 1830 sezioni scrutinate su 1840. Al netto di tutte le circostanze attenuanti, resta il fatto che circa il 75 per cento dei sardi che alle politiche avevano votato per i Cinque Stelle, domenica scorsa si sono orientati diversamente. Sul crollo ha inciso non poco la scelta pentastellata di osteggiare gli investimenti pubblici, in particolare nel settore delle grandi opere infrastrutturali. Il voto ai grillini alle politiche era stato in parte una reazione ai partiti tradizionali i quali avevano perso ogni credibilità e appeal. Il desiderio di scommettere su una novità ha spinto l’elettorato, in particolare il segmento dei ceti medi produttivi, a scegliere Luigi Di Maio e compagni senza andare troppo per il sottile sul come, una volta posti alla guida del Paese, i grillini avrebbero speso la dote di consenso accumulata. Sono bastati dieci mesi perché si squarciasse il velo sulle intenzioni degli “innovatori”.

I troppi “no” inanellati sulla continuazione o l’ultimazione di opere in corso di costruzione ha spaventato gli elettori, desiderosi di riscontrare sì maggiore correttezza e onestà nei rapporti tra le imprese e la Pubblica Amministrazione ma non al prezzo di fermare gli investimenti pubblici. Il reiterato “No” alla Tav Torino-Lione, di là dall’effettiva utilità dell’opera, è diventato il simbolo della negatività dei Cinque Stelle. Si dirà, al governo c’è anche la Lega. Vero, ma l’indubbia capacità di comunicazione del suo leader ha consentito che nell’immaginario collettivo si rimarcasse la netta differenziazione tra la capacità d’azione leghista e l’immobilismo grillino. Da qui la scelta di premiare l’uno penalizzando l’altro. Inoltre, nel successo leghista ha fatto aggio la storia pregressa di partito/sindacato dei territori.

Tra i pochi punti di contatto tra la Lega della prima ora e quella 2.0 di Salvini vi è la capacità di reclutare, selezionare e impegnare una classe dirigente periferica in grado di vivere la quotidianità del territorio e di operare le scelte migliori per le popolazioni locali. Il Nord a questo riguardo è un modello positivo al quale ispirarsi. Era inevitabile che, una volta caduta al Centro-Sud la pregiudiziale anti-leghista, le popolazioni centromeridionali, scegliendo la Lega, desiderassero importare i suoi collaudati modelli amministrativi per rimettere in piedi aree devastate da decenni di mal governo alternativamente del centrosinistra e del centrodestra a trazione forzista. Ugualmente i Cinque Stelle, di là dal mancato radicamento dell’organizzazione nelle realtà locali, hanno dato pessima prova quando sono stati chiamati a governare realtà complesse come i Comuni di Roma, Torino, Livorno. Incassata la sconfitta, Luigi Di Maio annuncia una rivoluzione copernicana nell’organizzazione interna del MoVimento. È un passaggio necessario, ma non è detto che sia risolutivo della crisi imboccata dal grillismo. Prima di ogni ritocco alla struttura, Luigi Di Maio e soci devono lavorare alla precisazione dell’identità del Movimento. Posto che finora i Cinque Stelle sono stati tutto e il suo contrario, adesso debbono scegliere cosa essere e, soprattutto, da che parte stare. Ciò implicherà un’implosione, che non è detto non possa rivelarsi salutare per il bene della democrazia. Una separazione delle diverse anime, che oggi vivono forzatamente nel medesimo contenitore, potrebbe riportare il Paese sulla strada di un sano bipolarismo, cancellando definitivamente l’illusione ottica che, con l’avvento dei Cinque Stelle, si fosse passati a una dimensione tripolare della rappresentanza politica. E checché ne dica pubblicamente, il più interessato ad accompagnare il processo di scomposizione del grillismo è proprio Matteo Salvini. La sua visione di Paese contempla la ricostruzione di un blocco sociale di riferimento al quale non può essere estraneo il segmento oggi rappresentato dall’ala conservatrice dei Cinque Stelle. Per dirla tutta, a Salvini proseguire l’alleanza con un Di Maio affrancato dall’ingombro dei sinistrorsi alla Fico o dei movimentisti alla Di Battista, farebbe assai comodo. Ed è questa la ragione per la quale il “Capitano” si tiene lontano dalle sirene forziste che vorrebbero una rottura ad horas dell’alleanza giallo-blu e la ricostituzione di un centrodestra governativo alla vecchia maniera.

D’altro canto, se è vero che il vampiro Salvini stia succhiando sangue ai grillini, perché mai dovrebbe smettere? Per tornare a soluzioni pasticciate con tanto di ribaltoni e transfughi prezzolati e per farsi dare dall’ex partner del traditore? Forse questa è la recondita speranza degli oltranzisti grillini che vorrebbero che il “Capitano” gli usasse la cortesia di rompere il “Contratto” per consentire loro di riprendersi il MoVimento dalle mani di Luigi Di Maio. Ma quel “sarò coerente fino in fondo con la parola data” ossessivamente pronunciato da Salvini all’indirizzo grillino suona più come un diabolico mantra che come un’attestazione di lealtà.

Archiviata la prova sarda, adesso si tira dritto verso la verifica delle europee, passando per il test periferico delle regionali in Basilicata. Con lo stesso spartito. Non sarà Forza Italia a convincere Salvini a fermare il gioco con i grillini, ma sarà lui progressivamente a chiamare, uno per volta, i suoi alleati di coalizione a salire sulla giostra con i grillini a mano a mano che questi perderanno per strada le stelle più scomode.

Aggiornato il 27 febbraio 2019 alle ore 11:32