
Il Movimento Cinque Stelle si affida agli iscritti alla piattaforma “Rousseau” per decidere cosa ordinare ai suoi rappresentanti nella Giunta per le immunità del Senato della Repubblica, chiamata a esprimersi sulla richiesta di autorizzazione a procedere avanzata dal Tribunale dei Ministri di Catania a carico del ministro dell’Interno Matteo Salvini per i noti fatti riguardanti il pattugliatore della Guardia Costiera “U. Diciotti”. La rete degli iscritti potrà votare oggi dalle ore 10,00 fino alle 19,00. In altre circostanze augureremmo loro buon voto dal momento che la partecipazione popolare al dibattito politico, sotto qualsiasi forma lecita si manifesti, è salutare per la tenuta delle istituzioni democratiche di un Paese. Ma non in questa specifica circostanza. La decisione se mandare o meno a processo Matteo Salvini dovrebbe essere questione riservata al giudizio dei parlamentari.
La sensazione invece è che si stia per compiere un bel salto all’indietro nelle vicende che attengono il rapporto tra il cittadino e lo Stato in materia di giurisdizione. Sembra essere tornati ai tempi di Barabba e Gesù e della giustizia amministrata a furor di popolo. Domanda: quanti degli aventi diritto a votare on-line hanno compreso la natura, peraltro delicatissima, della questione in esame? Qui non si tratta di stabilire se Salvini abbia commesso un reato per procurarsi un indebito vantaggio personale. La domanda che il legislatore costituzionale ha posto in capo all’organo depositario della sovranità popolare riguarda una speciale esimente di una condotta “politica” altrimenti censurabile come illecita. Matteo Salvini ha o non ha agito per la tutela di un preminente interesso pubblico nel fare ciò che i giudici gli contestano? Dovrebbero stabilirlo in scienza e coscienza i rappresentanti della volontà popolare, non gli iscritti a un club privato. A meno che la decisione sulla sorte giudiziaria di Salvini non nasconda una verifica della fiducia all’azione di governo dei giallo-blu che i capi grillini rimettono agli iscritti al Movimento. In tal caso la scelta della votazione on-line avrebbe senso politico. La verità è che, dopo la sconfitta alle regionali dell’Abruzzo della scorsa settimana, è saltato il coperchio della pentola che finora ha contenuto le contraddizioni ideali e politiche che convivono nel Cinque Stelle fin dal suo primo ingresso in Parlamento nel 2013. Vi sono in esso anime distanti che non possono più coesistere pena la definitiva paralisi decisionale, quindi è giunto il momento che si separino. L’ala che fa capo a Luigi Di Maio è sinceramente vicina a molte delle rivendicazioni che sono alla base del leghismo 2.0 di Matteo Salvini.
Sul fronte opposto c’è l’ala dell’ultrasinistra impersonata da Roberto Fico che vorrebbe sottrarre il Movimento all’abbraccio mortale con la destra per portarlo nei pascoli inariditi del neo-comunismo radical-chic. Poi c’è l’ala movimentista che si riconosce in Alessandro Di Battista che, invece, vorrebbe continuare a quadrare la coincidentia oppositorum manipolando il caos dell’indistinto cosmico grillino. Quest’ultima componente, che sposa una pretesa assai velleitaria, dalla scorsa domenica di sangue elettorale in Abruzzo è destinata ad essere rapidamente archiviata. Il “Diba”, benché giovane e smagliante, è già archeologia. Se non deciderà di schierarsi con l’una o l’altra delle due anime che si confrontano, per lui non ci sarà più posto. La votazione on-line di oggi è una sfida all’O.k. Corral dei tempi moderni, ingaggiata dai governisti-conservatori fedeli a Di Maio contro i comunisti-radical-giustizialisti di Roberto Fico. Se il verdetto della base dovesse mandare assolto Salvini sarebbe la conferma della fiducia del popolo grillino a e in Luigi Di Maio. Viceversa, un “si processi” sarebbe un voto di sfiducia all’odierno Governo giallo-blu. Non sarebbe a questo punto Matteo Salvini a staccare la spina all’Esecutivo, ma la salita al Quirinale di Giuseppe Conte per rimettere il mandato nelle mani del presidente Mattarella sarebbe il coerente epilogo di una scelta politica compiuta dalla base degli iscritti al Movimento. Che poi, a ben vedere, non è un comportamento tanto distante dalle liturgie dei partiti della Prima Repubblica.
Anche allora il risultato di un Congresso della Democrazia Cristiana o del Partito Socialista Italiano poteva incidere sulla sorte del Governo. Tanto per rinfrescare la memoria, il 19 maggio 1989 Ciriaco De Mita, capo del quarantaseiesimo Governo della Repubblica Italiana sostenuto da una maggioranza parlamentare pentapartito, si recò al Quirinale a rassegnare le proprie dimissioni aprendo la crisi di Governo esattamente quattro ore dopo che Bettino Craxi aveva dichiarato, in chiusura del quarantacinquesimo Congresso Nazionale del Psi, terminata la collaborazione governativa con l’alleato democristiano. Ai giornalisti che lo incalzavano sulle sue repentine dimissioni De Mita rispose: “Era inevitabile vista la replica di Craxi”. Cosa ci sarebbe di tanto diverso se fosse Giuseppe Conte domani l’altro, salendo al Quirinale per aprire la crisi, a dichiarare: “Era inevitabile visto il voto del popolo grillino”? Ciò che disturba in questa vicenda è che si sia usata da parte dei pentastellati la materia sensibilissima dei rapporti tra poteri dello Stato per definire un regolamento di conti all’interno di un partito. Di Maio non ha ancora compreso quanto sia pericoloso armeggiare con la giustizia, ma lo capirà presto visto che, a quanto pare, il suo desiderio, condiviso dal premier Giuseppe Conte e dal ministro Danilo Toninelli, di farsi processare insieme a Salvini sta per essere esaudito dal Tribunale dei Ministri di Catania. Ma quand’è che questi grillini cresceranno?
Aggiornato il 18 febbraio 2019 alle ore 11:59