
Esiste una malattia di cui la sinistra in questo Paese è portatrice insana. È una patologia altamente contaminante, anche a causa della mancanza di difese immunitarie che la destra mostra di non possedere a sufficienza, e si chiama superficialità manipolatrice. Si tratta del modo irrazionale, fazioso, demagogico di mutare senso a fenomeni anche degenerativi che si producono spontaneamente negli interstizi del tessuto sociale. Cosicché manifestazioni di tipi umani marginali che meriterebbero di essere consegnate all’irrilevanza vengono ingigantite ad arte e gettate senza ritegno nel mezzo dello scontro politico.
È di questi giorni la polemica scatenata sulla vicenda della banda dei “quattro idioti” tifosi della squadra di calcio della Lazio che per manifestare il loro odio nei confronti dei nemici di fede romanista hanno fatto circolare degli adesivi raffiguranti l’immagine di Anna Frank in maglia giallorossa. La giovane tedesca di religione ebraica deportata dai nazisti nel campo di concentramento di Bergen-Belsen dove, nel febbraio 1945, trovò la morte a causa di una grave malattia è diventata negli anni un simbolo di pace e di speranza contro la barbarie dell’odio razziale della quale fu vittima innocente. Richiamarne il sacrificio per associarlo, in termini augurali, agli avversari di curva dell’Olimpico non è antisemita: è demenziale.
L’episodio, dunque, avrebbe dovuto essere derubricato quale gesto, sì ignobile, ma irrimediabilmente stupido. Invece la sinistra ha voluto montare il caso mobilitando le truppe cammellate dei propri supporter dislocate nelle redazioni dei giornali e dei media televisivi. Se Hannah Arendt potesse ascoltare questi campioni della buona morale da un-tanto-al-chilo si rivolterebbe nella tomba. Perché l’atto di cui si è reso responsabile quel gruppo di facinorosi non è il male in sé. Ciò che invece è male è la loro incapacità di pensare, di riflettere sul senso dell’azione che andavano compiendo. I “quattro idioti” conoscevano la storia di Anna Frank? Avevano mai avuto tra le mani il suo “Diario”? Sulla scia del pensiero della Arendt ciò che deve impressionare è la normalità inconsapevole che spinge persone ordinarie a produrre comportamenti mostruosi. La banalità, alla quale s’iscrive il gesto insulso dell’esibizione impropria e provocatoria dell’immagine di Anna Frank, non ha radici. È il pensiero che, al contrario, possiede la qualità di radicarsi. È la capacità del pensare che permette di neutralizzare il rischio dell’adesione acritica a quegli standard morali, sociali e politici sbagliati che possono maturare e prendere piede in determinati momenti storici all’interno delle comunità umane anche attraverso la distorsione di processi solo in apparenza democratici.
Ogni individuo è in grado di stabilire da sé ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato a condizione che abbia idonei strumenti cognitivi e interpretativi della realtà, atti a esercitare la più alta prerogativa umana. Oltre la sceneggiata dello sdegno d’ordinanza bisognerebbe incidere la superficie con il bisturi e domandarsi se gli autori di quell’infamia abbiano o meno proprietà di pensiero critico. Probabilmente no. In tal caso se si vuole trascinare qualcuno sul banco degli imputati si cominci col processare per correità le famiglie che non hanno indirizzato nella giusta direzione l’educazione degli autori del gesto; la scuola che non ha insegnato loro a esercitare la facoltà del pensare limitandosi a impartire dosi massive di slogan ed espressioni proprie del politicamente corretto; la società “liquida” che li ha catturati e resi schiavi del bisogno consumistico dell’avere in danno dell’essere che si sostanzia nel rispetto dei valori-guida posti a fondamento della nostra civiltà. E si processi pure la politica che, per conseguire egoistici aggi elettorali, ha contribuito in maniera criminale alla banalizzazione delle parole depauperandole del loro significato reale, ultimo.
Se nel teatrino della propaganda demagogica l’un politico a ogni piè sospinto e per questioni di scarsa rilevanza grida all’altro “sei un fascista, sei un razzista!” non deve stupire se, col tempo, termini storicamente e moralmente impegnativi perdano di senso. Proseguendo su questa china non sorprenda che un laziale in luogo di un più innocuo “ma va’ morì ammazzato” scagliato all’indirizzo dell’odiato romanista, per produrre lo stesso effetto oltraggioso ricorra icasticamente alla trasfigurazione dell’immagine quasi mistica di una vittima della Shoah. La domanda da porre ai “quattro idioti” non è se il loro gesto sia stato giusto o sbagliato ma se siano capaci di vivere in pace con loro stessi dopo aver commesso quella particolare azione. Parafrasando Edmund Burke: perché il male trionfi è sufficiente che la gente smetta di pensare. E la sinistra fa di tutto perché i comuni mortali riflettano il meno possibile.
Aggiornato il 26 ottobre 2017 alle ore 21:30