
Il nostro ministro degli Esteri, Angelino Alfano, è troppo impegnato a dipanare il nodo delle elezioni siciliane e delle future alleanze nelle successive elezioni politiche per impegnarsi nella questione libica che non si risolve a Tripoli o a Tobruk (e neppure a Parigi) ma al Cairo, a Bruxelles e alla Casa Bianca. Il responsabile della Farnesina dovrebbe girare come una trottola tra la capitale egiziana, quella dell’Unione europea e quella americana per trovare il capo di una matassa che può essere sciolta solo assicurando all’Italia una serie di rapporti solidi e di alleanze stabili che al momento non sembrano più esserci.
Con il governo egiziano, che insieme alla Francia e al fronte dei Paesi arabi sunniti guidato dall’Arabia Saudita è il protettore diretto del generale Haftar, la distanza provocata dal caso Regeni è ancora molto larga. L’Unione europea continua a ignorare il problema posto all’Italia da un’accoglienza favorita dagli organismi e dagli interessi internazionali e sembra aver tacitamente avallato il disegno franco-tedesco di abbandonare il nostro Paese al destino di campo di concentramento chiuso delle masse di migranti provenienti dall’Africa e dall’Asia. E nei confronti del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, continua a esserci da parte della nostra diplomazia e della nostra classe dirigente il risentimento di tutti gli orfani di Barack Obama sparsi più in Europa che in America.
Per rompere questo muro di incomprensione il ministro Alfano dovrebbe compiere sforzi disumani. Ma non lo fa perché impegnato in altre faccende e, soprattutto, perché, prima di correre per il mondo a cercare sostegno e solidarietà per un Paese che subisce nell’indifferenza generale una invasione di fatto, dovrebbe compiere l’inosabile e l’impensabile bussando al portone di San Damaso per comunicare al Santo Padre che fino a quando la Chiesa non modificherà la propria linea dell’accoglienza indiscriminata e senza controlli sarà impossibile per l’Italia trovare una soluzione al problema incombente su cui si giocano anche e soprattutto i futuri equilibri politici del Paese.
La vera partita dell’immigrazione, infatti, si gioca a Roma. Ma Oltretevere!
Aggiornato il 08 agosto 2017 alle ore 11:50