
Leggo l’articolo di Luca Tedesco (“L’Opinione”, 27-04-17) con l’attenzione di chi alcune delle vicende evocatevi, in sostanza il rapporto ideale tra Altiero Spinelli e Marco Pannella, le ha vissute in diretta, sia pure da posizione molto defilata. Sono stato militante del Movimento Federalista Europeo collaborando, come allora – giovanissimo – potevo, il federalismo fu la mia prima bandiera, ben prima che il Partito Radicale. Ho incontrato Pannella nella sede del Movimento, in Piazza Fontana di Trevi.
Le critiche di Luca Ricolfi al “Manifesto di Ventotene”, puntualmente citate da Tedesco, le conoscevo già, e sono in buona parte corrette. Hanno però, a mio avviso, il difetto di una visibile mancanza di senso storico. Certamente, ad esempio, l’entusiasmo “rivoluzionario” di quelle pagine è piuttosto enfatico, ma nulla ha di “giacobino”. Era difficile, in quei lontanissimi, altamente drammatici primi anni Quaranta, sottrarsi al fascino di una promessa totalizzante come quella offerta dall’immagine di un “nuovo ordine” che esprimesse “le esigenze profonde della società moderna” e desse “la prima disciplina sociale alle nuove masse”.
Ma posso garantire che nelle stanze del vecchio palazzo di Piazza Fontana di Trevi non si avvertiva la tensione aggressiva di un partito aspirante alla dittatura del proletariato. Lì appresi ben più che i principi di una teoria e di una prassi assolutamente democratiche. In quelle stanze vennero ricevuti Alcide De Gasperi o il generale Dwight Eisenhower, per darci esortazioni a sviluppare europeismo e federalismo. E Spinelli, quando la Comunità europea di difesa (Ced) fallì, accettò di buon grado di presentarsi alle elezioni per il PE nelle fila di un Pci anelante ad assumere una fisionomia occidentale e democratica.
Semmai, Pannella si tenne un po’ indietro rispetto alla scelta di Spinelli, perché lui ritenne sempre essenziale l’indipendenza, l’autonomia dei mezzi. Pannella, per dire, non scrisse mai, nonostante le sollecitazioni di Mario Pannunzio, sul settimanale “Il Mondo”. A parte le egregie prove di giornalismo su “Il Giorno”, Pannella scrisse di politica piuttosto su sparuti foglietti come “Sinistra Radicale”, che io redigevo sui banconi della tipografia.
Non meno criticabili sono, nel “Manifesto”, certe tirate su nazionalizzazioni da realizzare in scala “vastissima”. Ma in quei tempi il grande problema della politica era quello di soddisfare l’ansia di giustizia sociale che attanagliava le masse europee, e non solo, dall’epoca della Grande Crisi, affrontata in Russia con la nazionalizzazione dell’intera economia, ma negli Usa con il New Deal keynesiano e rooseveltiano. E nel dopoguerra, in Inghilterra, fu il liberale Lord Beveridge ad inventare il Welfare come strumento per sollevare le sorti dei meno abbienti. L’aspirazione a diminuire le distanze sociali fu uno dei motori culturali e politici del tempo. Certe deficienze teoriche del “Manifesto”, se inquadrate nel loro contesto, sono perfettamente comprensibili. Quello che è certo è che esse non costituiscono il fulcro della mirabile operetta. In essa si metteva a fuoco un problema, quello della crisi degli Stati nazionali (e dei loro partiti), che è tornato oggi di estrema attualità, fino alle recenti elezioni presidenziali in Francia. Spinelli non defletté mai da questa persuasione. Dobbiamo a lui, inoltre, se è rimasto sempre acceso, da allora, il dibattito tra i “funzionalisti”, fiduciosi in una Europa che si venisse facendo passo dopo passo per integrazioni parziali e settoriali, e i “federalisti” che invece hanno sempre spinto per un cammino verso l’unione essenzialmente politica. Non si discute di questi temi ancora oggi?
Pannella, in un intervento parlamentare opportunamente menzionato da Luca Tedesco, criticò Spinelli per aver puntato sullo “Stato federale per la politica di potenza che egli si illude consenta, e chi, come noi (noi radicali, ndr) è interessato allo Stato federale perché siamo federalisti e perché ci interessa battere (...) l’illusione di uno Stato europeo giacobino, centralizzato e accentrato che possa in fretta, con maggior fretta, riuscire a garantire storicamente alla società giustizia e libertà...”.
L’idea, anzi il progetto, federalista è molto maturato, come si vede, da Spinelli a Pannella. Ma i due continuarono fino all’ultimo a stimarsi e Spinelli, già sul letto di morte, affidò a Pannella la sua eredità politica. Pannella sostenne poi che non voleva sentirsi un “erede”, ma senza Spinelli non ci sarebbe stato neanche il suo federalismo (Pannella non era, inizialmente, federalista, lo divenne grazie a un altro comune amico troppo presto scomparso, Giuliano Rendi).
Un ulteriore sviluppo della teoria federalista, in piena continuazione con Pannella, ci viene oggi dagli approfondimenti di Emma Bonino, con la sua difesa e promozione di un modello di “Federazione leggera” che consente di superare le diffidenze, purtroppo molto diffuse, verso una federazione intesa quale un Moloch – come diceva Pannella – “centralizzato e accentrato”.
Aggiornato il 02 maggio 2017 alle ore 17:35